2 In Le stanze della mente/ Vivere con un disturbo mentale

Ammettere di avere un problema: il nostro dolore non è mai abbastanza

Il giorno in cui decidi di cercare l’aiuto di un professionista è il giorno in cui sei costretto a compiere il primo, inevitabile passo di un percorso molto più lungo: ammettere di avere un problema.
Sembrerebbe semplice, a dirla così — “E che ci vorrà mai a prendere un appuntamento?” —, ma nulla è scontato quando si parla di salute mentale. Nulla è facile o indolore.
E può capirlo soltanto chi ci è passato.

No, questo non è uno di quei luoghi comuni duri a morire, che si usano quando non si sa come portare acqua al proprio mulino.
È una realtà di fatto e tutti gabberò bene a limitarsi a prenderne atto. Solo una persona che abbia attraversato tutti gli stadi che conducono ad ammettere di avere un problema può comprendere fino in fondo la miriade di difficoltà di cui è costellato il percorso.

All’inizio, non fai che rimandare

Rivolgersi a uno specialista non è come ordinare una cena su un’app di delivery.
Dietro la richiesta di un appuntamento con uno psicologo, infatti, si nascondono spesso giornate intere trascorse ad analizzarsi e ad auto-sabotarsi.

Se per un attimo stai meglio, ti dici che forse non ce n’è bisogno.
Insomma, sei stata produttiva a lavoro, hai ricevuto dei complimenti per le tue brillanti idee dal capo e dai colleghi, il tuo partner ha pensato di portarti fuori a cena e, a fine serata, avete anche fatto all’amore. E, per tutto il tempo, ti sei sentita capace e fiera del tuo successo.

Una persona con un problema — un vero problema — non potrebbe fare tutte queste cose né avere l’aspetto sano che hai tu.

Forse, hai esagerato a pensare di chiamare il numero che ti ha consigliato il tuo più caro amico, quando gli hai raccontato le tue difficoltà. Magari, vi siete entrambi lasciati prendere dal momento e avete analizzato la situazione con poca lucidità.

Sei stata troppo precipitosa e troppo emotiva, come al solito.

Certo, la tua vita non è perfetta, ma è normale, no? Non si può pretendere di essere sempre felici e in cima alla vetta. Bisogna imparare a fare tesoro dei bei momenti e usarne il ricordo per affrontare le fasi più difficili.

Sì, ne sei convinta. È meglio rimandare. Al momento, non c’è alcuna necessità di fare quella chiamata.

Poi, il tempo passa, un’altra settimana trascorre e la sensazione di inquietudine costante, che credevi aver scacciato, torna a scivolarti addosso e si posiziona sulle tue spalle come un mantello. E, dell’imperturbabilità che ti eri illusa di poter padroneggiare, è rimasto solo un ricordo sfocato che non basta a consolarti.

Sei di nuovo al punto di partenza.

Una scelta obbligata

Non so quale sia esattamente il motivo della nostra cocciutaggine, ma la mia personale esperienza e il confronto con gli altri mi hanno permesso di trarre una conclusione: facciamo quella prima, fondamentale richiesta di aiuto solo quando siamo oramai alla frutta e fissare un incontro diventa una scelta obbligata.

Io non faccio eccezione, ovviamente.

Al tempo in cui decisi di chiamare la psicoterapeuta che mi avrebbe presa in carico (e che ancora oggi mi segue), usavo una metafora legata all’universo di Harry Potter per spiegare come mi sentissi e cosa mi avesse spinto a prendere un appuntamento.
Per chi non fosse un fan della saga o per chi non avesse letto i libri, nel mondo creato dalla Rowling, esiste un Ministero della Magia diviso in sezioni. Una di esse è denominata Ufficio Misteri. Al suo interno, c’è una stanza che viene descritta come un grande anfiteatro al cui centro svetta un arco di pietra.

“Al centro si trovava una piattaforma di roccia sulla quale si ergeva un arco di pietra così antico, rovinato e pieno di crepe che Harry si meravigliò che fosse ancora in piedi. Privo di pareti che lo reggessero, l’arco era chiuso da una logora tenda nera, una specie di velo che, nonostante l’assoluta immobilità dell’aria fredda tutto intorno, fluttuava come se qualcuno l’avesse appena toccato. […] Dall’altra parte del velo provenivano sussurri fiochi, mormorii sommessi.”

J.K. Rowling, Harry Potter e l’Ordine della Fenice

Quando Harry Potter si avvicina al velo, sente delle voci flebili parlare come da lontano senza, tuttavia, riuscire a decifrare cosa stiano dicendo. Più tardi, la Rowling avrebbe spiegato che il velo rappresenta ciò che separa il mondo dei vivi da quello dei morti.

La ragione per cui ricorrevo a questa metafora è la seguente: ero arrivata al punto in cui avevo l’impressione che ci fosse una barriera tra me e il mondo reale.
Mi sembrava che gli altri riuscissero a vivere pienamente le loro esistenze e io mi limitassi ad assistere, senza davvero capire o provare nessuna partecipazione emotiva.

Più tardi, avrei scoperto che la mia condizione aveva un nome: disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione.

Ebbene, è stato proprio nel momento in cui mi sono accorta di non sentirmi parte del presente, né fisicamente né emotivamente, che ho capito quanto grave fosse diventata la situazione.

Solo allora, mi sono decisa a chiedere aiuto.

Una chiamata non basta

Ad ogni modo, una chiamata non basta a risolvere il problema. Non cancella i dubbi e le insicurezze. Non ci fa immediatamente sentire legittimati a provare quello che stiamo provando.
Seduta dopo seduta, persiste con forza l’idea di esserci inventati tutto. Di aver visto con gli occhi dell’esagerazione i nostri stati d’animo.

Del resto, tutti affrontano momenti negativi, no?

Incapaci di ammettere la portata della nostra sofferenza, cominciamo a mortificare noi stessi e quello che proviamo.
“C’è chi sta peggio e non si lamenta” o, più semplicemente, “Pensa a chi sta peggio” sono due delle frasi che mi sono sentita ripetere (e mi sono ripetuta) talmente tante volte da non poterle quantificare.

A quel tempo, di fronte a questi luoghi comuni, mi limitavo ad annuire sommessamente, a sospirare e a stare in silenzio. Così, lasciavo che mi venisse inculcata l’idea che un po’ tutti condividiamo e assecondiamo, anche involontariamente:

Il dolore egli altri è sempre più intenso, più valido, più grande e più rispettabile del nostro.

Per questo motivo, finiamo per provare tanta vergogna e tanta ritrosia al pensiero di cercare un aiuto professionale per i nostri sciocchi e futili problemi. In fondo, abbiamo un tetto sopra la testa, quanto basta per mangiare e passarsi qualche sfizio, un gruppo di persone su cui fare affidamento.

Di che ci lamentiamo? Con quale coraggio osiamo metterci al pari o al di sopra di chi sta veramente male?

Inizia così, in maniera subdola e silente, la spirale autodistruttiva che ci vuole primedonne, bugiardi, esagerati, addirittura ingrati.
Perfino di fronte al parere contrario di uno specialista che ci rassicura sulla validità delle nostre difficoltà, non riusciamo a liberarci della voce nella nostra testa che ci chiama “impostori”.

Per troppo tempo abbiamo prestato orecchio alla società e, ora, ci ritroviamo a fronteggiare uno dei suoi stigmi più diffusi e crudeli.

Il nostro dolore non è mai abbastanza.

La paura di affrontare i nostri demoni

Ma cos’è che sta tentando di fare la nostra mente, impiegando tante energie? Perché lo sta facendo, anche a costo di causarci tanta sofferenza? Ed esiste un modo per farla smettere?

Me lo sono chiesta anch’io, mille e mille volte, spronata dalla mia psicoterapeuta.

All’inizio, com’è prevedibile, ho fatto resistenza in tutti i modi in cui ci si può opporre a un concetto sgradito.
Se davvero la mia mente stava lavorando per ridurmi in uno stato tanto miserabile, pensavo che non meritasse la mia attenzione e men che meno le mie cure.
Allo stesso tempo, non mi capacitavo di ciò che mi veniva detto: come poteva la mia mente sfuggire a tal punto al mio controllo e comportarsi come se fosse un’entità dotata di volontà propria?

Dopo tre anni di sedute, finalmente, ho capito.

Era la paura di affrontare i miei demoni interiori — forgiati dalla sofferenza che mi aveva profondamente segnata — la causa di tutte quelle rimostranze verso la terapia.

Ammettere di avere un problema implicava accettare che qualcosa, nella mia vita, mi avesse a tal punto traumatizzata da farmi ammalare. Significava anche prendere atto che ci fossero delle cause e, potenzialmente, dei colpevoli.

Sopra ogni cosa, ammettere di avere un problema sottintendeva accettare di essere stata una vittima e, in parte, di esserlo ancora.

Non esiste una classifica del dolore

Se sei arrivata fin qui e ti sei rivista nelle mie parole, vorrei dirti quello che avrei voluto sentirmi dire nel primo periodo del mio percorso di psicoterapia: ammettere di avere un problema non è (e non dev’essere) un problema.

Semmai, è l’inizio del cammino che porta alla guarigione.

E non credere a chi si diverte a classificare il dolore sulla base di un punteggio attribuito chissà come e da chissà chi. Soprattutto, non credere alla voce nella tua testa che sminuisce e mortifica il modo in cui ti senti.

Il tuo dolore è valido ed è reale; e non deve per forza somigliare a quello degli altri.

Come ogni altra emozione, anche il dolore è personale. Se non ci aspettiamo di gioire tutti di fronte allo stesso risultato e non ci aspettiamo di desiderare tutti quanti la stessa persona o la stessa cosa, perché dovremmo provare pena di fronte a una sola categoria di trauma?

Nessuno di noi merita di soffrire più di quanto non stia facendo già e non è vero che il nostro dolore non è mai abbastanza.

Quindi, il consiglio che ti (ci) do è: prenditi cura di te, lotta per la tua salute mentale e non permettere a nessuno di svalutare ciò che stai provando. E non provare vergogna dinanzi alla prospettiva di chiedere aiuto.

Ricorda che ogni Batman ha il suo Robin, ogni Xena la sua Olimpia, ogni Harry i suoi Ron e Hermione.

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2 Commenti

  • Rispondi
    Katrin
    20 Aprile 2021 at 16:52

    Anche io sto pensando di rivolgermi ad uno specialista, questo lockdown purtroppo mi ha costretta a convivere con i miei demoni, e il confronto con loro non è andato sempre bene, ti capisco molto bene, l’importante è non lasciarsi abbattere, sfrontare il problema è l’unica cosa da fare, dajie tutta.

    • Rispondi
      ilmiocorpononsolomio
      21 Aprile 2021 at 15:32

      Immagino le tue difficoltà, perché sono le difficoltà che tanti altri hanno dovuto affrontare a causa di questa reclusione. Io, ad esempio, un anno fa ho avuto un peggioramento assurdo ed ero già in terapia. Quindi, il mio consiglio è di farlo. È un ottimo investimento per te stessa! Tifo per te e tienimi aggiornata!

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