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Come combattere la solitudine, un’amica fedele

Che tu debba ancora iniziare il percorso o che ti sia già incamminata verso la strada che porta alla scoperta di te, te ne renderai presto conto: la solitudine è una compagna di viaggio fedele e costante e non ha la benché minima intenzione di farsi da parte. E non fai che chiederti se esiste una strategia che ti insegni come combattere la solitudine.

Lo dico per esperienza personale, ovviamente. La sensazione più ricorrente con la quale mi sono ritrovata a fare i conti, durante i vari stadi del mio cammino, infatti, è stata proprio la solitudine. Mi riferisco, in particolare, a quel tipo di solitudine che si prova nello stare insieme agli altri: sei attorniata da persone, ma ti senti sola in un modo che fa mancare l’aria.

Ti senti sbagliata.

Alla ricerca del proprio simile

mani con mignoli intrecciati
Foto di Womanizer su Unsplash

A quei tempi, non riuscivo ad accettarlo. Avevo trovato una specialista in grado di seguirmi. Ero riuscita a confidarmi con alcune delle persone a me più care. Avevo ottenuto il sostegno dei miei genitori. Eppure, sentivo distintamente che mi mancasse qualcosa.

Il problema era non solo capire di cosa si trattasse, ma anche venire a patti con le mie emozioni e col fatto che spesso fossero in contrasto tra loro.

Una parte di me temeva che avessi avuto una svista. Magari, mi diceva, la strana sensazione di isolamento con cui facevo a botte era soltanto frutto della mia fervida immaginazione. Del resto, se fosse stata reale, avrei dovuto essere in grado di focalizzare quel di più di cui sentivo disperatamente la mancanza, no?
Un’altra parte, che si sentiva affogare nella morsa della solitudine, si arrabbiava. Non riusciva a comprendere cosa ci fosse di sbagliato in me e, contemporaneamente, accusava gli altri di non darmi abbastanza. Ma come risalire al bandolo della matassa?

Le risposte sono arrivate a darmi pace solo molto tempo più tardi.

Non c’era qualcosa che non andava in me e non c’era qualcosa che non andava nel mio sistema di supporto. Semplicemente, avevo bisogno di confrontarmi con qualcuno che potesse immedesimarsi nelle mie difficoltà da un punto di vista interno: non con le lenti del professionista e non con gli occhi di chi non c’era mai passato.

Volevo avere al mio fianco qualcuno che capisse le mie difficoltà per averle già attraversate a sua volta. Qualcuno che non mi guardasse con pietà, preoccupazione o fare clinico. Desideravo confrontarmi con un mio “simile”, una persona alla deriva nel mare tempestoso del disturbo mentale.

La delusione di non sentirsi capiti

Non voglio essere ingrata, né puntare il dito. Voglio soltanto dire la verità, la mia almeno. E la mia verità è che, per quanto strenui fossero i tentativi di chi mi stava accanto, non c’era giorno che non convivessi con la delusione di non sentirmi capita.

A volte, mi addolorava così profondamente il sentirmi incompresa da costringermi ad un ostinato mutismo, dal quale era difficile farmi uscire. Ricordo di aver trascorso giorni interni, poi diventati settimane e mesi, raccolta nell’intimità della mia stanza nel tentativo di dare un senso al mio caos interiore.

In quelle lunghe ore passate con me stessa, mi sentivo divorare dalla paura di non potercela fare. Mi sentivo una causa persa, incapace di trovare la chiave di sblocco per una situazione estenuante e insopportabile.

Il dolore era spesso così intenso e la paura così terrificante che mi costringevo a spegnere la mente con qualsiasi mezzo a disposizione: un film lunghissimo e struggente per ricordarmi che non fossi l’unica a soffrire; una serie TV per immaginarmi di vivere la vita di un’altra persona; una nuova chat whatsapp per distrarmi con chiacchiere superficiali.

Ma non era che un sollievo momentaneo — una brezza fresca in un torrido mattino di Agosto.

Una solitudine auto-indotta

“Spiegami come ti senti. Aiutami a capire cosa provi.”

Mamma

Ricordo ancora distintamente il giorno in cui mia madre me lo ha chiesto. Ed è così perché rammento anche di non aver saputo rispondere. A tratti, penso di non aver voluto.
Perché? Perché temevo di spaventarla e di ferirla.
Come puoi raccontare a tua madre i dettagli dell’inferno che stai passando senza correre il rischio di terrorizzarla? E come puoi pronunciare a voce alta le parole che non hai ancora avuto il coraggio di dire a te stessa?

Se avessi dovuto parlare sinceramente, avrei dovuto dirle che era come convivere con un mostro che aveva preso sede nel mio petto. Questa bestia, affamata e senza pietà, non faceva che mangiare e la sua pietanza preferita ero io. Si nutriva della mia felicità, della mia speranza, del mio ottimismo, delle mie ambizioni, delle mie capacità. Li masticava tutti con grande attenzione e me li risputava addosso sotto forma di ansia.

Per non allarmarla, allora, abbozzavo une mezza risposta in cui ammettevo quanto stessi male, ma aggiungevo sempre sul finire una risata. Volevo tranquillizzare lei e confortare me, come se quella risata potesse bastare a farmi credere che, in fondo, non era poi così grave come pensavo.

E in quelle mezze bugie, in quel bisogno spasmodico di proteggere gli altri, finivo divorata dalla solitudine e dall’impressione che, nella selva oscura in cui ero capitata, non avrei trovato alleati. Ero l’unica persona sulla quale potessi contare, quindi dovevo tacere. Dovevo fingere che andasse meno peggio di com’era in realtà e affrontare tutta la disperazione che in verità provavo nei momenti in cui fossi stata da sola.

Non vedevo altra via.

La solitudine è una conseguenza della società

riflesso di donna sulla vetrata di un grattacielo
Foto di Etienne Boulanger su Unsplash

La società non parla volentieri di disturbi mentali e, se lo fa, si assicura di usare una chiave tutto fuorché realistica. Nell’immaginario collettivo, andare dallo psicologo è da pazzi e una persona che soffre di un disturbo mentale è qualcuno del quale diffidare. E la cinematografia non fa che assecondare i cliché che ci vogliono imprevedibili, pericolosi e addirittura autori delle più impensabili atrocità.

Per questo, chiunque viva un disagio psicologico prova un gran senso di vergogna ad ammettere la propria condizione e a farsi avanti. Teme il giudizio degli altri, teme di non essere compreso. Soprattutto, teme di essere guardato con occhi diversi. Per questo, si rifugia nella solitudine.

E non ha, di certo, tutti i torti.

Mi sono resa conto di vivere questo disagio in tempi recenti, durante una giornata passata a inviare curriculum a destra e a manca. Per il genere di lavoro che voglio fare, mostrare di essere stata capace di mettere su un blog è senz’altro un valore aggiunto. Dà, infatti, la certezza al (presunto) datore di lavoro che, quando mi dico capace di gestire uno spazio online, io non stia mentendo né parlando solo a livello teorico.

Ma cosa succede se il blog che ho creato rivela anche che soffro di disturbi mentali? In una società che ci insegna a pretendere la perfezione, quante possibilità esistono che io venga scartata a priori in ragione dei pregiudizi che esistono a riguardo?

Il fatto che io abbia scelto di non aggiungere il link di questo blog al mio curriculum la dice lunga sulle paure che mi porto ancora addosso. E, badate bene, non si tratta di timori infondati. I commenti che ho sentito — e che continuo a sentire — da chi non sa nulla della mia condizione hanno dato nutrimento al mostro che vive nel mio petto. Così, ogni qualvolta penso di infischiarmene, la bestia sa esattamente su quali argomenti fare leva per farmi rimanere rintanata nel mio cantuccio.
Da soli si sta bene e nessuno deve per forza sapere la verità.

I dati, del resto, sono dalla sua parte.

La sindrome del giocattolo rotto

peluche sdrucito attraverso buco nella parete
Foto di david Griffiths su Unsplash

La sindrome del giocattolo rotto è il modo che uso per descrivere l’immagine principale che prende forma nella mia mente, quando mi dico certa che il mio migliore amico è e sarà sempre la solitudine.

Immaginate di entrare in un negozio di giocattoli. Gli scaffali pullulano di balocchi nuovi, scintillanti, freschi di fabbrica. Sono perfetti. A guardarli attraverso la plastica che li avvolge e li protegge, non c’è nulla che non vada in loro. Sono la rappresentazione esatta di ciò che vorremmo per noi e come regalo per gli altri.

Immaginate, ora, che in quello stesso negozio ci sia uno scaffale di giocattoli non proprio in ottime condizioni, venduti possibilmente a un prezzo minore. In quanti si fermerebbero a guardare o addirittura a comprarne uno? Perché dovrebbero scegliere la versione imperfetta di un balocco, se possono avere quella nuova di fabbrica e ancora intatta?

Chiunque sia affetto da un disturbo mentale è così che si sente nel confronto con gli altri: un giocattolo rotto e mal funzionante in una cesta di giocattoli nuovi.
Con un certo rammarico, ci diciamo che nessuno sceglierebbe di stare accanto a una persona guasta, avendo un’alternativa perfettamente sana. Insomma, stare con qualcuno che ha un disturbo mentale richiede pazienza e comprensione; richiede di saper scendere a compromessi e di avere la sensibilità di accettarne le difficoltà.

Così, ci sentiamo sbagliati, inadatti e anormali come il peluche abbandonato sul fondo del baule.

Il rimedio alla solitudine esiste

Sembrerà banale e, forse, poco risolutivo, ma il rimedio alla solitudine esiste ed è parlare.
So che non esistono molti spazi dove farlo liberamente senza incorrere nei pregiudizi, il che mi fa strano. In una società dove è possibile connettersi col resto del mondo in un paio di click e dove esiste uno spazio per qualsiasi cosa, trovare qualcuno con cui sentirsi a proprio agio nell’esprimere le proprie difficoltà è raro, più di quanto potreste pensare.

E parlo per esperienza, dato che l’idea di questo blog nasce proprio da una ricerca non andata a buon fine.

Chiusa nel mio bozzolo di solitudine e tristezza, a un certo punto, ho sentito il bisogno di fare qualcosa a riguardo. Si è acceso in me una necessità spasmodica di connessione.

Dovevo per forza trovare qualcuno con cui parlare e che mi capisse.

Così, è iniziato il mio viaggio disperato su internet: blog, pagine e gruppi FB, pagine e hashtag su Instagram, perfino canali YouTube. Non avevo grandi pretese. Qualsiasi cosa sarebbe andata bene, purché mi avesse fatta sentire meno sola e sbagliata. Purché mi avesse permesso di parlare con un altro essere vivente in grado di immedesimarsi in ciò che stavo provando.

La mia ricerca, ovviamente, non è andata come speravo. Non c’era nulla che rispondesse alle mie esigenze. Ero riuscita a trovare un paio di gruppi FB statunitensi pressoché inutilizzati, dove non ho neppure avuto il coraggio di presentarmi o commentare. Perché? Non era quello che cercavo.
Io desideravo avere un confronto approfondito, magari leggere l’esperienza di un’altra persona e poter dire “sì, è esattamente così che mi sento anch’io”, nella migliore delle ipotesi trovare una community con cui poter stringere un legame e confrontarmi.

Ma, nel panorama italiano, il rimedio alla solitudine non esiste — non alla mia tipologia di solitudine, almeno, e non come lo vado cercando io.

Come ho risolto il problema? L’ho risolto?

amici su un muretto che parlano
Foto di Kate Kalvach su Unsplash

Se ti stessi chiedendo come sto adesso e se ho trovato una soluzione al problema della solitudine, la risposta è . Quindi, rallegrati e fammi un bel sorriso perché sono qui per alleviare i tuoi affanni o, almeno, per provarci. Il solo fatto che tu sia qui, sul mio blog, e stia leggendo un mio articolo significa che qualcosa comincia a cambiare nel panorama italiano e che qualcuno si sta impegnando per rimediare alla lacuna che ci ha tanto fatti penare.

Andiamo per gradi, però.

Il primo, grande cambiamento intervenuto nella mia vita è stato avere la fortuna di conoscere altre persone affette da disturbi mentali. Non so se il Fato si fosse stancato delle mie suppliche miste a maledizioni al punto da volermi accontentare. Sta di fatto che, nell’arco di poco tempo, ho avuto occasione di confrontarmi con chi aveva intrapreso (e stava ancora percorrendo) un percorso di grande difficoltà in termini di salute mentale.

Come pensavo, questo ha letteralmente cambiato le carte in tavola: non soltanto potevo parlare liberamente del modo in cui stavo e sentirmi capita, ma riuscivo a trovare nel confronto reciproco e senza giudizio la cura alla solitudine che avevo a lungo cercato. In breve tempo, sono anche arrivata a trovare sostegno in quelle sessioni di chiacchiera e il sostegno ha generato conforto, che mi ha portata qui.

Se, per molto tempo, avevo accarezzato l’idea di aprire questo blog per dare il mio (modesto) contributo a una causa che mi stava particolarmente a cuore, rendermi conto di quanto fosse importante e rilevante un canale di comunicazione tra pari è riuscito a confermare le mie supposizioni: uno spazio come questo poteva (e può) fare la differenza.

Così, ho investito tutte le energie in mio possesso per dare forma al mio grande progetto e sono attualmente ingaggiata nella sfida di aumentare la consapevolezza nel campo della salute mentale. Lo faccio dal punto di vista di una persona normale, che non ha nessuna qualifica specialistica e non intende sostituirsi agli esperti in materia. Lo faccio, soprattutto, per spirito di vicinanza con te che mi stai leggendo e che hai bisogno di un aiuto.

Ti sto tendendo il braccio e sono pronta ad afferrare la tua mano.

Rispetta i tuoi tempi e i tuoi desideri

ragazzo che si copre gli occhi con le mani
Foto di christopher lemercier su Unsplash

A questo punto, vorrai probabilmente capire cosa fare. Insomma, hai letto questo articolo e hai capito che la volontà non mi manca. Ma come puoi ottenere un vero aiuto e assicurarti che la solitudine non torni a travolgerti, una volta che avrai chiuso la finestra del mio blog?

La risposta più ovvia è che, se stai cercando aiuto e non sei ancora assistito da un professionista, dovresti probabilmente partire da quello. Oggi come oggi, esistono tanti modi per cercare in autonomia una figura specializzata in psicologia alla quale potersi affidare: io, ad esempio, ho trovato la mia psicoterapeuta su una piattaforma online e ne esistono altre simili che potrebbero fare al caso tuo (ti consiglio di provare qui e qui). Più semplicemente, potresti anche digitare nella barra di ricerca Google le parole “psicologo” o “psicoterapeuta” e aggiungere subito dopo il nome della città in cui vivi.

Queste tecniche sono molto utili, se desideri iniziare il tuo percorso senza sentirti in obbligo di dirlo ad altri e anche se non c’è nessuno nelle tue conoscenze che abbia affrontato una situazione simile alla tua e dal quale poter ottenere il recapito di uno specialista.

So bene che questa fase sia molto più complessa di quanto si possa pensare. Potresti avere dei dubbi e, addirittura, delle vere e proprie rimostranze, convincendoti che i tuoi problemi non siano abbastanza gravi da meritare l’attenzione di un professionista.
Ecco, sono qui per ricordarti che non è affatto così, che i tuoi sentimenti sono validi e che meriti tutto il sostegno di cui hai bisogno. Non lasciare che ti venga fatto credere il contrario.

C’è anche un’altra risposta, che non va a sostituirsi alla prima ma vi si affianca: puoi scrivermi. Che tu voglia lasciare un commento a un articolo oppure raggiungermi sui canali social (mi trovi sia su Instagram che su Facebook), per me è importante rispettare i tuoi tempi e i tuoi desideri. Quindi, non metterti fretta, se per il momento preferisci restare ancora un po’ nel tuo cantuccio. Io aspetto pazientemente.
Al contrario, nel caso in cui volessi trovare una parola di conforto per alleviare la solitudine o per sentirti capita, ti aspetto molto volentieri.

Ricorda: la solitudine potrà anche essere una fedele compagna, ma le persone giuste lo sono di più.

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2 Commenti

  • Rispondi
    Antonio
    13 Aprile 2021 at 22:55

    Talmente bello questo post che non si sa cosa ci si possa aggiungere, solo una cosa posso dire, anche nel momento in cui ci sentiamo giocattoli rotti ci può essere qualcuno che per amore ci preferisce ai giocattoli integri, a volte i giocattoli rotti hanno più valore degli altri.

    • Rispondi
      ilmiocorpononsolomio
      14 Aprile 2021 at 15:38

      Teoricamente, sono davvero d’accordo con te. Così dovrebbe essere e, mi auguro, così sarà un giorno. Ma mentirei se dicessi che, a volte, non mi vedo ancora come un giocattolo rotto, specie a confronto con altre persone che sembrano perfettamente in controllo della loro vita – magari non lo sono, eh, ma il peso dell’etichetta che ho appuntata sul petto lo sento tutto.
      In ogni caso, ti ringrazio tantissimo per essere passato, per aver letto e per avermi fatto sapere cosa ne pensassi. Per me, è davvero importantissimo!

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