Il bisogno di essere vista: diversa ma normale

Sono stanca: stanca di essere diversa, stanca di essere “normale“, stanca di continuare a oscillare tra un estremo e un altro anche quando si tratta di desiderare qualcosa. 
Se io e te ci incontrassimo domattina, su un treno qualsiasi che porta a una destinazione qualsiasi, è questo che ti direi. Ti parlerei della mia spossatezza e del peso dell’incoerenza che mi trascino dietro da chissà quanto. So di cosa si tratta, bada bene. Conosco le ragioni che nutrono questa mia doppiezza di intenti, ma sapere non basta a farmi sentire sollevata.

A una spanna dal grande finestrino sporco, mentre chiacchieriamo sulla profondità della vita, finirei sicuramente per farti delle domande. Vorrei sapere se capita anche a te.

Trovi un certo conforto nel sapere di appartenere a una nicchia, quella di chi soffre di disturbi mentali? Ti fa sentire speciale in un modo che ti è sempre stato negato? Ti capita, però, alle volte di non sopportare le implicazioni di questa diversità?

A me sì, spesso. Immagina una persona sul seggiolino di un’altalena, che va avanti e indietro a velocità variabile: un momento ha le gambe tese che sembrano toccare il cielo e quello dopo sporge il corpo all’indietro per prendere nuovo slancio col vento che le scuote i capelli e una strana sensazione di leggerezza addosso.

Ecco, quella persona sono io.

Il desiderio di essere vista

Potrà sembrare un bisogno mosso dalla vanità o, peggio, dalla superficialità, ma ti assicuro che non è così. Tutti vogliamo essere visti. Non semplicemente guardati, ma visti. Qual è la differenza? Che uno sguardo si ferma solo sullo strato esteriore delle cose, mentre la vista si attarda e scava più in profondità.

Essere visti significa essere conosciuti — anche solo per la frazione di un istante — per chi siamo e non per il modo in cui ci mostriamo agli altri.

Io mi porto appresso questo desiderio da molti anni, ma ne ho preso consapevolezza solo di recente durante il mio percorso di terapia. Per un po’, me ne sono vergognata: mi sono giudicata frivola e avida di attenzioni, come se aspirassi soltanto ad essere la protagonista indiscussa sul palco di una prima a teatro. Poi, ho indagato più a fondo e ho visto ciò che mi ero ostinata a nascondere sotto uno spesso strato di imbarazzo.

Volevo — voglio — essere vista perché mi sono sentita invisibile per buona parte della mia vita.

Ho trascorso così tanto tempo a soffrire in solitudine, rannicchiata sotto le coperte del mio letto con la porta della camera chiusa per non essere scoperta, da provare adesso una necessità opposta. La diagnosi ha dato legittimazione a un dolore che, a lungo, ho creduto di non essere titolata a provare e ha messo gli altri nella posizione di doverne prendere atto.

Adesso, voglio che sappiano. Voglio che vedano.

La rabbia e il senso di colpa

Non è semplice. Per quanto chiaro sia il mio desiderio di essere vista, esso porta con sé moltissime contraddizioni e si arricchisce costantemente di sfumature nuove. Non potrebbe essere altrimenti, del resto.

Soffrire di disturbi mentali implica confrontarsi con le emozioni che abbiamo deciso di non affrontare, tornare indietro nel tempo per fronteggiare i fantasmi che ci siamo ostinati a ignorare. Solo così si spiana il percorso che conduce alla guarigione. Ma come fare i conti con sentimenti diametralmente opposti tra loro? Come spiegare la loro esistenza apparentemente inconciliabile?

Nel mio caso, sono la rabbia e il senso di colpa a scontrarsi come titani.

Mi rende livida l’idea di essere stata invisibile per così tanto tempo senza che nessuno si accorgesse della mia sofferenza. Com’è possibile?, mi domando ancora. Com’è possibile non vedere una bambina prima e una ragazzina poi e il tunnel di paura in cui sta versando pur avendola così vicino? Quando mi pongo questi quesiti, stringendo i pugni per trattenere l’indignazione, mi dico che io sarei stata più brava. Che io avrei visto.

È qui che subentra il senso di colpa. Mi sento sempre ingenerosa e crudele a concedermi queste emozioni perché ne conosco la forza bruta. Arrossisco — mentalmente e fisicamente — anche solo per aver pensato di potermi permettere la rabbia. Qualsiasi ferita mi sia stata provocata non è frutto di un attacco volontario ai miei danni. Si è trattato, piuttosto, di un protratto stato di disattenzione. E si può essere adirati con qualcuno, se il comportamento è stato involontario?

“Essere arrabbiata è giusto. Significa dare il permesso alla bambina sola e alla ragazza ferita che sei stata di esprimere il dolore che hanno provato” mi ha detto la mia psicoterapeuta, una seduta di qualche mese fa. E io — prima bambina, poi ragazza, adesso donna — sono tornata a respirare.

Finalmente, qualcuno è riuscito a vedermi.

La spada del (pre)giudizio

Nella mia esperienza di paziente, so che avere un disturbo mentale è una condizione assai controversa. Una parte di te rifiuta la diagnosi, un’altra la accoglie con sollievo, un’altra ancora ne è spaventata. A fare da sfondo a ciascuna di queste istanze, c’è il timore del giudizio — proprio e altrui — e del pregiudizio.

Sarebbe bello pensare di vivere in una società in cui la salute mentale è un argomento del quale parlare con tranquillità, senza che l’espressione sul volto degli altri cambi ogni volta che annunci di soffrire di un disturbo. La realtà, però, è un’altra: siamo profondamente diseducati alla cura della nostra mente che quasi non ci immaginiamo possibile ammettere di vederla ammalarsi. 

Così, nonostante i miei propositi di divulgazione sui social, via podcast e a mezzo blog, anch’io casco nella spirale della paura del pregiudizio quando si tratta di essere vista. 

Nell’ultimo mese, la mia presenza su questo angolino protetto è stata ridotta perché ho iniziato a lavorare e abituarmi ai nuovi ritmi ha richiesto una buona dose di energie. E per chi, come me, è già costretto a impegnarne molte per far fronte agli sfarfallii del proprio cervello non è proprio un gioco da ragazzi far coincidere tutto senza esaurirmi. Te lo racconto per condividere con te uno sprazzo di vita: ho deciso che avrei detto la verità agli altri, se ce ne fosse stata l’occasione. Avrei ammesso che soffro di disturbi mentali e avrei aggiunto che questo non mi rende meno valida di chi non ne ha.

Vorrei descriverti la paura che mi stringe ogni volta che sto per dirlo o la tensione con cui mi approccio ad ogni compito che mi viene assegnato. Sento di dover dare il doppio per dimostrare che posso essere brava, produttiva e capace come gli altri. E ho paura che ogni errore, mancanza o disattenzione possa essere vista come qualcosa da imputare alla mia condizione.

Temo, in sostanza, che quella diversità così tanto agognata finisca per ritorcermisi contro.

Il lusso di essere se stessi

Se mi stai leggendo e ti sei riconosciuto in ciò che ho scritto, è probabile che tu ti riveda in ciò che sto per dire: alla fin fine, tutto ciò che vogliamo è accettarci ed essere accettati per quello che siamo

Quando le persone scoprono che soffro di disturbi mentali, solitamente fanno un’espressione sbigottita e io, che mi lascio sempre prendere da un nodo di nervosismo allo stomaco, riesco a sorriderne. Mi chiedo cosa si aspettino di vedere in noi povere anime messe alla prova dalla vita e mi rispondo che, forse, sono alla ricerca di segnali —  qualcosa che potesse dare loro almeno un indizio sul mio stato mentale.

Non l’avrei mai detto. Sembri la persona più felice del mondo! Così felice che viene voglia di farti una foto e incorniciarla.

È questo che mi ha detto un ragazzo con cui sono uscita la settimana scorsa, strappandomi una smorfia divertita. Lo ha fatto con una genuinità e una sorpresa tali che mi sono sentita bene. Ho come avuto la conferma che il messaggio che mi sto impegnando a trasmettere fosse effettivamente passato proprio nel modo in cui lo avevo concepito.

Siamo soltanto persone che hanno qualche difficoltà in più per cause indipendenti dalla nostra volontà. Ma non mangiamo nessuno, non siamo pericolose e non valiamo di meno.

Nella risposta che gli ho dato, è riassunto con esattezza ciò che non sempre mi è facile conciliare: essere diversa in un modo che non mi faccia sentire esclusa, men che meno sbagliata.

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