Grassofobia, diet culture e discriminazione

Ti sei mai sentita giudicata per il tuo aspetto? O hai mai fatto qualche commento pepato sul fisico di un’altra persona? Se sì, potresti essere cascata nella trappola del temutissimo terzetto costituito da grassofobia, diet culture e discriminazione.
Tranquilla! Non sono qui per puntare il dito, né per fingere di essere l’esemplare di essere umano più integerrimo che tu abbia mai incontrato.
Anch’io, che mi piaccia ammetterlo o meno, sono incappata nell’errore di metter bocca sull’aspetto fisico altrui. E l’ho fatto con una leggerezza che, nel tempo, mi ha portata a riflettere molto.

Così, mi sono resa conto che, in passato, commentavo il corpo delle persone come se fosse un’abitudine.

Ho impiegato un po’ per rendermi conto del controsenso del mio comportamento e, allo stesso tempo, della sua assoluta normalità. E c’è voluto il doppio dello sforzo per capire come mai mi sentissi a disagio ogni qualvolta pronunciavo un’osservazione pungente sulla corporatura di chicchessia, ma contemporaneamente non riuscissi a esimermi dal farlo.

Se soffrivo per l’odio che non riuscivo a fare a meno di riversare su me stessa e mi sentivo morire all’idea di ricevere un giudizio negativo sul mio aspetto, come potevo rendermi artefice della stessa condotta ai danni di qualcun altro?

D’altro canto, ero certa di non essere l’unica: anche chi mi circondava si abbandonava spesso e volentieri allo sport del giudizio facile e non sembrava preoccuparsene troppo.

Lo facevo da che ne avevo memoria, con naturalezza, e lo stesso valeva per chiunque conoscessi. E, poi, che male poteva fare un parere espresso tra amici?!

Ero immersa fino al collo nel pantano di grassofobia, diet culture e discriminazione senza esserne davvero cosciente.

Come ho scoperto la parola “grassofobia”

Mi fa ancora ridere pensarci, ma devo ammetterlo. Fino a meno di un mese fa, ero convinta di avere inventato io la parola “grassofobia” e di essere l’unica ad utilizzarla.

La storia è questa: un giorno che mia cugina si era espressa con un commento sulll’aspetto fisico di una persona, io — da sempre più in carne di lei — ho scherzosamente replicato “Se pensi questo di Tizio, figuriamoci cosa dirai di me. Grassofobica!”.
Nella mia mente, mi ero limitata a fare una semplice associazione: se omo + fobia genera un termine che indica l’avversione verso l’omosessualità, la bisessualità e la transessualità, il termine equivalente per indicare l’avversione verso il sovrappeso e l’obesità deve essere costituito da grasso + fobia. Grassofobia.

Ho realizzato di essermi erroneamente attribuita la maternità di questa parola soltanto alcune settimane fa.

Su suggerimento di una ragazza, mi sono recata in libreria per comprare un volume intitolato “Fat Shame. Lo stigma del corpo grasso” di Amy Erdman Farrell, nel nostro Paese edito da tlon.
Il libro in questione offre una panoramica interessantissima sul modo in cui, nel tempo, si è modificata la percezione del grasso, passando dall’essere vessillo di prosperità e ricchezza a simbolo di incapacità di tenere a freno i propri impulsi, dunque di imperfezione.

Nel corso della sua dissertazione, sostenuta da ricerche e rimandi a moltissimi dati, l’autrice fa spesso ricorso a un’espressione abbondantemente utilizzata negli Stati Uniti — dove gli studi sul grasso come oggetto di discriminazione (al pari della razza, dell’etnia, del sesso e delle preferenze sessuali) sono ben più nutriti che sul suolo nostrano — e che va sotto il nome di fatphobia.

Letteralmente, grassofobia.

La discriminazione del corpo grasso

Penso di non sconvolgere nessuno se dico che, per la mia esperienza personale, la maggior parte dei commenti fatti sul corpo di altre persone abbia a che vedere con la perdita o l’aumento di peso.

Siamo tutti pronti a notare un dettaglio fisico che attira la nostra attenzione e a farci un’idea a riguardo, magari senza sapere nulla di chi, quel dettaglio, se lo porta appresso ogni giorno. E siamo tutti pronti a esprimere il nostro parere sullo stato di salute altrui, basandoci su quel poco che l’aspetto esteriore può dirci davvero in merito.
Soprattutto, siamo pronti ad accostare il concetto di magrezza a quello di bellezza e salute, come se fossero pezzi di un puzzle destinati a incastrarsi soltanto tra di loro.

“Ma per caso sei dimagrita?! No, perché stai benissimo. Sembri pure più giovane!”

Quella che ho appena proposto è, forse, la tipologia di commento che ho sentito fare (e fatto) più spesso nel corso degli anni.
Il risultato che emerge dal suo significato è che la perdita di peso vada celebrata, mentre il suo contrario… Be’, l’aumento di peso non può essere che un’onta sulla dignità della persona, che evidentemente non sa controllarsi!

Poco importa che le motivazioni possano essere tante e, il più delle volte, tutto fuorché legate alla forza di volontà: a meno che non si abbia una malattia e siano stati i farmaci a causare l’aumento di peso, prendere qualche chilo è una vergogna.

Ma com’è che, prima o poi, finiamo tutti appesi al laccio di grassofobia, diet culture e discriminazione?

Le aspettative del mondo che ci circonda

Foto di Laura Chouette su Unsplash

Nessuno nasce razzista, omofobo, sessista, con pregiudizi su chi professa una religione diversa dalla nostra o con la convinzione che i disturbi mentali rendano pericolosa una persona. Allo stesso modo, nessuno nasce grassofobico.

Ancora una volta, la responsabile di questo comportamento viziato è la società. E come potrebbe essere altrimenti?!

Viviamo in un contesto sociale in cui le copertine delle riviste osannano corpi longilinei e senza imperfezioni, anche a costo di diffondere un’ideale di bellezza tossico. Le pubblicità, i brand di abbigliamento, i guru del fitness e una grossa fetta dell’industria alimentare ci inducono alla spasmodica ricerca del peso forma come unico modo per sentirsi accettati. E ci viene inculcato un sentimento di insoddisfazione perenne del quale è impossibile liberarsi.

La giustificazione: perdere peso fa bene alla salute.

Il risultato è che la nostra attenzione rimane spesso focalizzata sul corpo e sulla necessità di migliorarne l’aspetto più che lo stato generale.
Se così non fosse e, cioè, se si perseguisse l’obiettivo di salvaguardare la salute della popolazione con dati a sostegno della magrezza come unico elemento determinante, non si spiegherebbero tante cose.
Non si spiegherebbe, ad esempio, per quale motivo i disturbi alimentari colpiscano indiscriminatamente persone di qualsiasi taglia e misura. Né si spiegherebbe come sia possibile che le tecniche suggerite per il dimagrimento abbiano spesso un alto indice di rischio per la vita (si pensi all’assunzione di pillole che riducono l’appetito o alla chirurgia bariatrica).

Quello che stiamo inconsapevolmente facendo, tutte le volte che pretendiamo di sindacare sul benessere di una persona basandoci soltanto sul suo aspetto fisico, è assecondare i dettami della diet culture.

La diet culture: cos’è e che ruolo svolge nella nostra vita

Foto di Vince Fleming su Unsplash

Christy Harrison, nutrizionista registrata e autrice del libro “Anti Diet”, dà la seguente definizione della diet culture.

La diet culture è un sistema di credenze che propugna la magrezza e la fa coincidere con la salute e la virtù morale. […] Promuove la perdita di peso come mezzo per ottenere uno status migliore. […] Demonizza certi modi di mangiare e ne eleva altri, il che significa che sei costretto a stare sempre attento a ciò che stai mangiando, a vergognarti di fare certe scelte alimentari e a distrarti da ciò che ti piace, dai tuoi scopi e dal tuo potere. Opprime le persone che non soddisfano l’immagine di “salute” ideale, il che tende a colpire in modo sproporzionatamente maggiore le donne, le lesbiche, i trans, le persone con corpi più grandi, le persone di colore e le persone con disabilità, rischiando di danneggiarne la salute fisica e mentale.”

Citazione presa (e tradotta da me) dal blog di Alyssa Rumsey nutrition & wellness

Come potrai notare, esiste un legame stretto e continuo tra grassofobia, diet culture e discriminazione.

Si tratta di concetti così presenti nella nostra quotidianità che non stupisce notare come la maggior parte di noi non ne sia consapevole. Eppure, in quanti si rispecchiano tristemente nelle parole di Christy Harrison?

Vivere in un mondo dominato dalla diet culture significa, oggi, vivere poco serenamente il rapporto con il cibo e con il proprio corpo. E significa anche prestare più attenzione all’aspetto che non al valore di una persona.

Nell’ossessione verso la perfezione, perdiamo di vista un benessere dal significato più vasto, spesso a scapito della nostra salute mentale. Così, preferiamo spendere i nostri soldi per un abbonamento in palestra o per un pacchetto di massaggi drenanti, piuttosto che investirli nei nostri sogni. Scegliamo di costringerci a una vita di privazioni senza valutare l’impatto che questo possa avere sulla nostra psiche. Decidiamo di non accettarci così come siamo e di migliorare non perché ne sentiamo il bisogno, ma per soddisfare un ideale.

Vogliamo essere accettati.

L’avvento del body positive e della filosofia dell’intutive eating in segno di protesta

Foto di Brooke Lark su Unsplash

Il body positive è un movimento sociale sorto nell’ottica di dare rappresentazione a i c.d. corpi non convenzionali.
A differenza del movimento per la fat acceptance, il body positive manifesta un’inclusività a tutto campo. Promuove, infatti, non soltanto l’accettazione dei corpi sovrappeso o obesi, ma anche di quelli affetti da disabilità.

Il messaggio che si vuole trasmettere è che la diversità meriti di essere vista e rappresentata, non oscurata e rifiutata.

Servendosi di un messaggio positivo, si mira a combattere grassofobia, diet culture e discriminazione.
L’obiettivo rimane quello di sensibilizzare le persone a una presa di consapevolezza degli stigmi che affliggono i corpi grassi (e diversi in generale). E, soprattutto, quello di sensibilizzare l’opinione pubblica verso un fenomeno di accettazione senza condizioni.

L’intuitive eating prende pienamente parte a questo processo di de-stigmatizzazione.

Quando si parla di intuitive eating, infatti, si sposa una scuola di pensiero che mira a ricostruire il rapporto con il cibo e con il corpo.
Ideata nel 1995 da Evelyn Tribole ed Elyse Resch, l’alimentazione intuitiva mira a regolare i segnali di fame, appagamento e sazietà, abolendo le regole che ci sono state inculcate in secoli di diet culture.

In poche parole, si mangia quando si ha fame e si smette quando si è sazi.

Ovviamente, questo metodo passa attraverso un percorso di rieducazione alimentare, che aiuta la persona a interpretare correttamente i segnali del proprio corpo. Mangiare in modo intuitivo, invero, non significa gettarsi indiscriminatamente su qualsiasi cibo a tutte le ore del giorno.
L’alimentazione intuitiva, di contro, insegna a cancellare gli effetti della privazione alimentare, a gestire le emozioni legate al cibo e ad accettare sé stessi.

Il nostro corpo, per istinto, sa esattamente di cosa abbiamo bisogno. Dobbiamo solo imparare a interpretarne di nuovo i segnali in modo corretto.

Il cambiamento richiede pazienza

Foto di Sonja Langford su Unsplash

Abbracciare concetti come il body positive e l’intuitive eating non è semplice.
Non ci si sveglia un giorno, si decide il da farsi e si ha la pretesa di avere successo l’indomani. A volte, pretendere di riuscirci da soli può essere non solo difficile, ma addirittura controproducente.
Se è vero che abbiamo vissuto per anni come prigionieri di grassofobia, diet culture e discriminazione, lo è altrettanto aspettarsi che smantellare le credenze che ci hanno inculcato richieda pazienza.

Me ne sono resa conto in prima persona, il giorno in cui mi sono detta decisa a cambiare le carte in tavola.

Desideravo liberarmi dell’odio verso il mio corpo e della mia incapacità di raggiungere la forma fisica perfetta. Desideravo avere il controllo della mia vita senza sentirmi più rimbalzata da un dettame all’altro senza soddisfarne nessuno. Ed ero determinata a riuscirci.

Poi, mi sono trovata costretta a fare i conti con due fattori non da poco: la mia condizione psicologica (molto sensibile ai temi come cibo e aspetto fisico) e la scoperta di soffrire di un disturbo alimentare.

È stata una fortuna che fossi già in terapia da un paio di anni, perché mi sono presto resa conto di non potercela fare da sola. Avevo bisogno di aiuto per confrontarmi con le conseguenze degli stigmi legati al grasso e coi pregiudizi che avevo sofferto per mano mia e altrui.

Onestamente, ci faccio a botte ancora adesso, giorno dopo giorno, pasto dopo pasto, specchio dopo specchio. Abbandonare l’idea che alcuni cibi siano buoni e altri cattivi e che questi ultimi siano da evitare in ogni modo possibile non è semplice. Faccio fatica a orientarmi tra il bisogno di controllo assoluto che avevo in passato e l’assenza di punti cardinali in cui mi trascina il disturbo. Oscillo da un estremo all’altro.

Una lotta continua: a questo mi hanno costretta anni di grassofobia, diet culture e discriminazione per le dimensioni del mio corpo.

Cosa desidero oggi e a cosa penso che dovremmo mirare tutti?

A stare bene con noi stessi per come siamo e non per come ci immaginiamo che dovremmo essere agli occhi della società.
Vorrei che le persone dessero più peso alle parole che non alla stazza e vorrei sentirmi a mio agio nella mia pelle.
E mi piacerebbe anche che mangiare fosse un’attività semplice e naturale, da compiere senza temere un giudizio o tenere conto delle calorie. Che tutti noi recuperassimo il piacere di goderci il cibo e di nutrire il nostro corpo per le fatiche che affronta.

Al di sopra di tutto, vorrei che non ci fosse più spazio per grassofobia, diet culture e discriminazione perché sostituiti da body positive, intuitive eating e accettazione.

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