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L’altalena di Daniela nel mondo dei DCA

Il racconto di Daniela e del suo tête-à-tête con i disturbi del comportamento alimentare

I disturbi del comportamento alimentare (o DCA) ti divorano, ti consumano dal di dentro. Si insinuano nella tua vita con passo felpato, con lo stesso fare laborioso del bruco che punti alla mela, e se ne impossessano finché ti te non rimane lo scheletro di ciò che eri e la copia carbone sbiadita di ciò che avresti voluto diventare.

Arrivo a questa conclusione dopo una lunga e piacevole chiacchierata con Daniela, una ragazza conosciuta su Instagram che ho intervistato un sabato di fine marzo sotto il sole cocente di una primavera un po’ briccona. Scopro così che Daniela ha appena ritrovato la sua gattina, che credeva smarrita dopo averla a lungo cercata nelle settimane precedenti. È stata la sua determinazione a consentire il ritrovamento, il che mi dice già molto sulla persona che mi accingo a conoscere.

A guardarla attraverso lo schermo, Daniela mi trasmette una vitalità travolgente. Ha un sorriso irresistibile, lo sguardo brillante, una parlata romanesca che me la fa adorare dal primo “ciao”. Ho come l’impressione di essere di fronte a un’amica con la quale devo programmare una gita in montagna per il weekend di Pasqua.

Il cielo sopra di noi è terso e il calore di mezzogiorno ci scalda entrambe a distanze differenti. Una nuvola, però, sovrasta la volta dei nostri pensieri e, presto, riporta la nostra attenzione al fulcro dell’incontro.

Questa è la prima intervista che realizzo per il blog e Daniela la mia prima ospite. L’argomento? I disturbi del comportamento alimentare.

Quando hai scoperto di soffrire di DCA?

Kit per l'università, periodo in cui Daniela sviluppa l'anoressia: uno zaino blu, un'agenda e un pc

La mia domanda è chirurgica, ma Daniela non si lascia cogliere impreparata.

“Ho scoperto di soffrire di disturbi alimentari negli anni dell’università, reduce dal liceo e dal periodo delle top model super magre. La mia compagna di banco del liceo, in effetti, soffriva di DCA, ma io in qualche modo sono riuscita a resistere incolume a quella fase.”

È una rappresentazione socioculturale fedele, che riporta alla luce molti dei miti criticati dai sostenitori della body positivity. Naomi Campbell, Kate Moss, Victoria Beckham hanno contribuito alla promozione di un modello distorto di bellezza: quello che coincide con la magrezza.

A cambiare durante gli anni dell’università, per Daniela, è l’universo del controllo. Lontana dall’environment familiare e finalmente libera di sperimentare per conto proprio, si dischiude per lei l’infinito mondo delle possibilità. E Daniela decide di impadronirsi della propria vita, scegliendo la via della rigidità. All’età di 21-22 anni, incomincia a dettare un ritmo sempre più serrato alle sue giornate: meno condimenti, meno cibo e meno cibi, più allenamento, più ore di studio. La sua esistenza si inaridisce e il suo peso cala fino ai 52 chili. L’inebriante sensazione che viene con il controllo è tale che Daniela non si accorge del fossato in cui è caduta finché, 3 anni dopo, il padre dell’allora fidanzato le suggerisce la via dell’analisi.

Il segno indiscutibile che qualcosa non vada.

Il Caso, meschino, vuole però che il percorso di analisi non porti nessun giovamento a Daniela e che, anzi, la induca a sviluppare un ulteriore senso di onnipotenza. “Mi sentivo come Dio” mi rivela con piena cognizione dei suoi pensieri di ragazza e non posso fare a meno di annuire durante la sua confessione, perché so che una parte dell’assuefazione data dai disturbi alimentari viene proprio da questo – dalla sensazione di potere tutto. Daniela inizia anche a pensare che l’evoluzione naturale del suo percorso dominato dal controllo sia correre al bagno ogni volta che ha mangiato, anche se ciò che ha ingerito si può reggere sul palmo di una mano.

L’anoressia è entrata nella sua vita e lei ancora non lo sa.

L’altalena tra anoressia, bulimia e ortoressia

Ragazza sull'altalena a simboleggiare l'oscillare di Daniela tra anoressia e bulimia, due DCA

Una presa di contatto con un centro specializzato nel trattamento dei DCA, 5 anni di terapia e un matrimonio finito più tardi, Daniela è ancora in piedi ma barcolla – giustamente. La vita non è stata gentile con lei e le ha fatto dono di un rapporto conflittuale con sua madre, fulcro del vuoto che negli anni ha alimentato i suoi disturbi alimentari e che lei ha vanamente tentato di colmare.

Torna, dunque, a vivere da sola e la sua relazione con il cibo finisce per disregolarsi ancora, ma in una direzione differente stavolta. Daniela ha 32 anni e vive un inferno sul posto di lavoro. La sua responsabile è una persona verbalmente e fisicamente violenta. La umilia. É tale il timore delle ripercussioni che potrebbe avere su di lei la scoperta del suo stato di salute mentale (n.d.r. l’assunzione di psicofarmaci) che Daniela si sente schiacciare. E l’unico modo di compensazione finora per lei abbia mai funzionato ha a che vedere con il cibo.

“In quel periodo, avrò fatto arricchire il forno sotto casa. Per mio marito, era un continuo viavai. Mangiavo di tutto ma soprattutto pizza e dolci. Non è che li mangiavo una volta al giorno tutti i giorni. Li mangiavo più volte al giorno tutti i giorni. Non riuscivo a smettere, a farne a meno.”

Era una compulsione, le faccio notare con un sospiro comprensivo. Poi, Daniela mi sorprende con un bel plot twist di quelli che non ti aspetti. Mi racconta, infatti, che la responsabile violenta quasi la costringe a partecipare a un colloquio per un’altra agenzia per il lavoro – un colloquio che porterà all’assunzione della sola Daniela, liberandola dal giogo del suo tiranno. Durante la visita medica per verificare la sua idoneità fisica, il medico rivolge a Daniela una frase (“Lei è una bella donna, ma ha bisogno di perdere peso per la sua salute”) che suscita in lei una reazione emotiva molto forte e la convince che è il momento di “rimettersi in forma”.

Rimettersi in forma, per chi soffre di DCA non avviene mai (o quasi mai) in maniera corretta

E, in effetti, per Daniela torna in un baleno l’ossessione per il controllo sotto forma di una routine folle, a tratti insostenibile per un essere umano fatto di carne e sangue: percorso in bicicletta, decine di chilometri al mare, circuito in acqua e regime alimentare serrato. A questo, un’agenda dove ogni cosa viene incastrata alla perfezione. Va tutto per il meglio, finché Daniela non perde il lavoro e viene assunta presso un’azienda dove il contatto con una collega con tendenze bulimiche fa da trigger alle sue.

E l’altalena torna a oscillare.

Come hai vissuto l’evoluzione dei tuoi disturbi alimentari?

Ragazza con le spalle nude e le ossa delle clavicole in evidenza a sottolineare un aspetto dell'anoressia

Qui, la risposta un po’ me l’aspetto e un po’ è come se volessi sentirmela dire per conferma. Perciò, quando Daniela la pronuncia, non so se annuire o se vergognarmi un po’ di me stessa per come sono. Non è facile scrivere di disturbi alimentari quando si soffre di disturbi alimentari. L’argomento riporta a galla emozioni vorticose, che a loro volta evocano immagini e sensazioni.

“Quando sono passata dall’anoressia alla bulimia l’ho vissuta male. L’ho visto come un fallimento perché era una sensazione bellissima sentirsi le ossa.”

Sentirsi le ossa. Se sapeste quante ore ho passato, nel periodo di più forte ortoressia e dimagrimento, a guardare il profilo ossuto delle mie clavicole e a osservare allo specchio ciascuna vertebra della schiena, non mi credereste. Lo trovereste malsano al limite del raccapricciante. Ne ero ossessionata al punto da non riuscire a smettere. La mia mano indugiava sempre in quei punti per essere sicura di riuscire a percepire ancora distintamente il profilo delle ossa. Così, quando sono ingrassata per l’evoluzione del mio DCA in binge eating, mi sono sentita mortificata.

Ero – sono – un fallimento.

Il pensiero mi accompagna tutte le volte che mi spoglio e, voltandomi di schiena, osservo la linea della colonna vertebrale e non scorgo nessun rilievo; oppure quando noto i rotolini ai lati del costato. Mi sento sporca come se avessi commesso un peccato. Come se mi fossi fatta sfuggire un’occasione che avevo già tra le mani.

Per questo, nell’udire la risposta di Daniela provo vergogna: perché vorrei non capirla, ma la capisco meglio di quanto desidererei.

Com’è stato ricevere la diagnosi di DCA?

“Un sollievo perché, per tanto tempo, mi era stata attaccata addosso un’etichetta che non sentivo mia, cioè quella depressione di cui soffriva mio padre. Invece, finalmente, avevo una risposta diversa che potesse smentire ciò che mi era sempre stato detto.”

La risposta di Daniela tocca le corde del mio cuore, non mentirò. Anche per me ricevere la diagnosi ha avuto un effetto liberatorio, come se improvvisamente tutto ciò che un senso non l’aveva mai avuto si fosse d’un tratto svelato ai miei occhi e avesse assunto legittimità. A tratti, volevo rinfacciarlo a chiunque mi avesse mai tacciato di comportamenti capricciosi, negando o svilendo la mia sofferenza.

Non sarei riuscita a immaginare, però, quale sollievo si potesse provare nello staccarsi di dosso la targhetta sbagliata per trovare finalmente quella giusta, se Daniela non me lo avesse spiegato e il pathos del suo racconto non mi avesse trasmesso il senso di urgenza legato a quel ricordo. Dev’essere stato terribile, rifletto mentre il sole quasi mi acceca e senza trovare il coraggio di dirglielo, sentirsi costretta a entrare in uno schema che sai con certezza non essere il tuo.

Qual è stata la scoperta più dolorosa legata ai DCA?

Un piatto e due ciotole vuote sullo sfondo di una tovaglia stropicciata bianca a rappresentare i DCA

Pongo la domanda a Daniela con molta curiosità, probabilmente perché nella mia mente si agita il mare magnum del nulla eterno. Non saprei cosa dire, se messa nella sua posizione. Forse, la cosa che mi ha addolorata di più è stato aver scoperto di esserne stata affetta anche da bambina e di essere stata tacciata erroneamente di eccessiva golosità. Se avessi avuto una diagnosi, mi sarei risparmiata anni di prese in giro e, soprattutto, il giudizio caustico di me stessa su me stessa.

Daniela, ad ogni modo, non solo soddisfa la mia curiosità, ma la accende.

“Direi che la scoperta più dolorosa è che non si guarisce mai del tutto. Qualcosa rimane sempre nella tua vita e dovrai farci i conti nelle piccole cose. Sai, i calcoli mentali, il controllo, queste cose qui… Alla fine, una volta che ci sei dentro, non puoi sradicarle dal cervello. Per questo, penso che sia importante prendere i disturbi alimentari in età giovane. Lì qualcosa si può fare. Con un percorso strutturato, se sei giovane, puoi risolverli completamente secondo me. Certo, sempre che tu abbia un sistema di supporto valido.”

Come la penso io?

Penso che non voglio farmi un’idea perché farmela sarebbe troppo pericoloso. Ammettere di guarire mi spaventa almeno quanto quella di non guarire mai del tutto. Le implicazioni sono tante, i perché e i percome sono vari e io non sono ancora matura quanto Daniela per arrivare a una conclusione simile.

Come i disturbi del comportamento alimentare hanno influenzato i tuoi rapporti?

Due lego: uno di Batman con un gelato in mano e uno di superman con un ghiacciolo i mano

I disturbi del comportamento alimentare, per assurdo come possa sembrare, sono disturbi estremamente sociali. Questo perché:

  • coinvolgono il cibo, che fa da aggregatore sociale;
  • tutti parlano arbitrariamente e continuamente dei comportamenti alimentari propri e altrui;
  • la diet culture ha contribuito a una visione distorta del rapporto con il cibo.

Tutti questi elementi rendono il cibo un elemento di discussione molto presente nella nostra vita, con la conseguenza non soltanto che i trigger sono letteralmente ovunque, ma anche che i DCA finiscono per diventare parte integrante della relazione con l’altro.

Quello che mi racconta Daniela è che il principale protagonista del suo rapporto con i disturbi del comportamento alimentare sia da individuarsi nel suo attuale marito, la persona che gli è stata accanto durante molte delle fasi evolutive dei DCA. Vengo così a scoprire ciò che già so e, cioè, che non è stato semplice per il marito di Daniela confrontarsi con i grandi mostri che vivono dentro persone come me e lei.

“Mio marito si è sentito frustrato e impotente, perché non c’era nulla che potesse realmente fare per aiutarmi. Per quanto si sforzasse, non era semplice barcamenarsi tra una situazione e l’altra.”

E io le credo. Credo a entrambi.

Le compulsioni hanno questo straordinario potere di soggiogarti. Al loro cospetto, anche l’amore che ha smosso mari, monti e colline sembra incapace di aiutarti a resistere all’impulso di ciò che la tua mente ti impone di fare. Non è mancanza di amore, né incapacità dell’altro di rendersi utile.

È semplicemente una mancanza di strumenti.

È proprio in questa fenditura che s’inserisce il percorso con uno o più specialisti nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare – una battaglia che va combattuta con quanti più alleati possibili. Nella concertazione tra ciò che può fare l’esperto e ciò che può dare il sistema di supporto, sta proprio la soluzione al rebus del DCA.

Un rebus che Daniela sta imparando a gestire con il suo sguardo brillante, il suo sorriso contagioso e la sua parlata romana che te la rende subito amica. E, soprattutto, con la straordinaria forza di una donna che si è persa spesso in una selva di ombre e ne è sempre – elegantemente – riemersa.

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L'altalena di Daniela nel mondo dei DCA
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L'altalena di Daniela nel mondo dei DCA
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Un'intervista a Daniela, una giovane donna con una forza espressiva ineguagliabile, apre una finestra sul mondo dei disturbi del comportamento. Così, racconta del suo percorso attraverso l'anoressia, la bulimia e l'ortoressia sempre con uno smagliante sorriso sul viso.
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ilmiocorpononsolomio

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